OUT OF FRAME

Veronica Daltri, Il Manifesto

In un momento di crescente polarizzazione ideologica, quanto può la narrazione visiva generalista dell’immigrazione contribuire alla spersonalizzazione dei soggetti migranti?

La mostra fotografica Out of frame-Rethinking the visual narratives of migrations, al centro culturale Geopolis di Bruxelles, propone un’alternativa.

In mostra, i lavori dei fotografi Miia Autio, Felipe Romero Beltran, Samuel Gratacap, Alessio Mamo, Alisa Martinova e Aubrey Wade, che hanno indagato i fenomeni migratori in sei paesi europei (Francia, Germania, Ungheria, Italia, Spagna e Regno Unito). Al centro dei progetti c’è l’approccio partecipativo tra fotografo e persone migranti: queste ultime sono infatti soggetti attivi della propria rappresentazione, azzerando così la distanza e subordinazione tra fotografante e fotografato attraverso un legame paritario nella costruzione dell’immagine.

Ad esempio, in I called out for the mountains, I heard them drumming, l’artista finlandese Miia Autio presenta le storie di cinque rifugiati del Rwanda ed esplora il loro rapporto con il paese natale e quello di accoglienza in una stratificazione composta dai ritratti dei profughi realizzati in Europa nei luoghi dove hanno trovato rifugio. L’indagine si sviluppa attraverso le fotografie dei luoghi del Rwanda ritenuti significativi da ognuno dei rifugiati e gli scritti personali in cui raccontano i propri ricordi.

Nel progetto Dialect Felipe Romero Beltran (che attualmente è in mostra anche al Foam di Amsterdam con una personale) documenta tre anni della vita di nove giovani migranti marocchini in un centro di accoglienza a Siviglia, dove vivono in un limbo di attesa per il permesso di soggiorno: li coinvolge come protagonisti per ricostruire insieme il viaggio intrapreso dal Marocco alle coste spagnole.

Oltre ai lavori fotografici, Out of frame dà spazio a un’installazione di “Now you see me Moira”, progetto partecipativo sul più grande e sovrappopolato campo profughi d’Europa situato sull’isola di Lesbo. Creato da una photoeditor e fotografa spagnola di nome Noemi (si firma così sul sito del progetto), in collaborazione con i fotografi e rifugiati che vivono nel campo –  Amir,  Ali, Mustafa, Qutaeba e Reza. Il progetto documenta quel luogo dall’interno, richiamando però anche l’attenzione del mondo esterno: nel 2021, infatti, il collettivo ha lanciato una campagna di sensibilizzazione invitando designer da tutto il mondo a creare poster e illustrazioni rielaborando le fotografie scattate all’interno del campo e invitando a diffondere i nuovi poster per segnalare la situazione disumana del campo di Moria.

La mostra è curata da Giulia Tornati dell’associazione Zona, associazione no-profit composta da fotografi, giornalisti e filmmaker, che realizza progetti su temi sociali e culturali, con particolare attenzione alla migrazione e ai diritti delle donne. È visitabile fino all’11 marzo.