Emiliano Mancuso. Una diversa bellezza.
Michele Smargiassi, Fotocrazia
Il fotografo che passa, il fotografo che resta
Quanto tempo serve, per l’immersione? Lo chiedo agli amici fotoreporter del lavoro lungo, non a quelli delle hard news.
Lo chiedo agli amici fotoreporter dei “progetti” che quasi senza eccezione, quando vedono la luce, vantano di essere frutto di una lunga immersione nel loro soggetto. Come per dire: ehi, non sono andato di fretta, scatta e fuggi, ho approfondito, ho vissuto quello che racconto e l’ho fatto a lungo.
Ma quanto a lungo? Quanto tempo devi passare dentro la situazione da cui poi ricaverai un reportage, un libro, un documentario, quanti perché sia abbastanza? E soprattutto: c’è anche un troppo? Un limite da non superare? E dopo, cosa succede?
Ho trovato un fotografo che si è fatto queste domande. Di Emiliano Mancuso vi ho già parlato in questo spazio, forse l’ho fatto in modo un po’ troppo formale, da recensione classica del lavoro di una intera vita (la sua, purtroppo, troppo breve: ci ha lasciati due anni fa a soli 47 anni di età), in occasione di una sua mostra, postuma, a Roma.
Torno a parlare di lui perché finalmente è uscito il libro, Una diversa bellezza, che rende quella mostra perenne. Lo ha curato con affetto, la sua abituale competenza e una aggiuntiva forte emozione Renata Ferri. A cui chiedo scusa anticipatamente: no, Renata, non ti ho chiamato per parlare delle cose che sto per dire perché ho preferito avere più domande che risposte: ma sapremo recuperare, ovviamente.